Quando Wilde venne a Napoli sotto falso nome
L’esperienza del carcere non è facile per nessuno, tanto più se quel carcere è una orribile prigione inglese di fine Ottocento, e soprattutto se “l’ospite” in questione è un dandy decadente, un intellettuale, un creativo, un poeta dall’animo inquieto, un esteta raffinato ed eccentrico. In altre parole se il prigioniero è Oscar Wilde. E una volta liberato dalle patrie galere, quale città europea avrebbe potuto meglio e più di Napoli far riconciliare l’autore del Ritratto di Dorian Gray con la bellezza?
Accompagnato da Lord Alfred Douglas, “Bosie”, il suo amatissimo, giovane fidanzato, nel settembre del 1897 Oscar Wilde giunse a Napoli per una remise en forme fisica e spirituale.
Wilde era convinto che nell’incanto di Partenope sarebbe riuscito a gettarsi alle spalle la terribile esperienza di Reading, la prigione dove era stato rinchiuso due anni con l’accusa di “pratiche illecite”. Non erano solo il sole e le dolcezze del Golfo, le vestigia greco-romane, il clima vivace della belle epoque ad attirare a Napoli i maggiori artisti dell’epoca. La città infatti nell’Ottocento era uno dei centri culturali più avanzati d’Europa, una capitale moderna, tollerante verso ogni stile di vita, insomma Napoli era gay friendly.
Però Wilde sapeva di essere avvolto da una reputazione disturbante persino per una città tutto sommato liberale come Napoli.
Non si trattava soltanto di aver fatto épater le bourgeois con aforismi sferzanti, il culto del peccato e uno stile di vita eccentrico e dissoluto. Il suo rovinoso processo per sodomia e la lunga detenzione in carcere lo avevano bollato come un criminale nell’immaginario collettivo dei benpensanti dell’epoca. Cosi Wilde scelse di viaggiare sotto falso nome e a Napoli si registrò come Sebastian Melmoth. Ingenuo escamotage o forse un malcelato divismo, perché il celebre drammaturgo irlandese non passava certo inosservato. Nonostante Napoli abbondasse di eccentrici stranieri, incrociarlo mentre passeggiava sotto il sole sul lungomare di via Caracciolo, scuro vestito, con una perla appuntata alla cravatta di raso, il bastone di ebano coronato da un bulldog d’avorio, e l’enorme ametista in stile episcopale che indossava sull’anulare guantato era proprio come dire: «Ehi gente, sono io Oscar Wilde!»
Il tentativo di nascondersi non aveva fatto altro che attizzare la stampa napoletana, decisa a svelare i rumors sulla presenza del grande artista in città. Matilde Serao dalle colonne de “Il Mattino” scrisse un articolo intitolato “C’è o non c’è’ nel quale paragonava la venuta dello scrittore a una calamità: «Qualcuno ha annunziato che in Napoli si trovi Oscar Wilde, il decadente inglese che diede così larga copia di argomenti ai cronisti alcuni anni orsono a proposito di un processo ripugnante… Come? Oscar Wilde a Napoli? Ma sarebbe una calamità la presenza tra noi dell’esteta britannico… avremmo assai vicino il più insopportabile tipo di seccatore che le cronache contemporanee abbiano inflitto al pubblico paziente».
Sostanzialmente infischiandosene del giudizio moraleggiante della Serao, la coppia frequentava i luoghi più mondani della città, gli alberghi di lusso, i ristoranti alla moda, il Caffè Gambrinus, e gli ambienti letterari della città. Wilde era innamorato della manifattura sartoriale napoletana, così durante i suoi soggiorni presso il Grand Hotel Parker’s riceveva i più celebri sarti della città per farsi prendere le misure degli abiti che disegnava lui stesso e che poi sfoggiava nelle sue passeggiate partenopee. Wilde prendeva lezioni di italiano tre volte a settimana mentre cercava qualcuno che potesse tradurre le sue opere.
Capita spesso che la vita degli scrittori sembri una sceneggiatura creata da loro stessi: il ping pong tra lusso e miseria, piacere e sofferenza contraddistinse sempre l’esistenza di Wilde. Cosi anche il soggiorno napoletano si trasformò in dramma. Sperperato tutto il denaro a disposizione, nella coppia si creò un clima di reciproca intolleranza e recriminazioni, liti furiose. Bosie andò via. Wilde senza più soldi sopravvisse tra pensioni malfamate e camere a ore nei pressi del porto in una sorta di abbandono alla degradazione. Un finale già scritto nel suo poema della rassegnazione, La ballata della prigione di Reading: “yet each man kills the thing he loves”.