La storia dello sciuscià napoletano: origine e genesi di una figura tipica.


Come abbiamo avuto spesso modo di precisare, il vernacolo napoletano ha avuto una evoluzione autonoma nel corso dei secoli, mutuando lemmi provenienti dalle lingue più disparate: oltre che dall’italiano, dalla lingua spagnola e francese precipuamente, oltre che da quella araba, al greco antico e latino.
Stavolta, tuttavia, ci occuperemo segnatamente di un termine di derivazione anglosassone, che affonda il suo etimo in una figura diffusa nel corso della fine della seconda guerra mondiale, gli “sciuscià” napoletano, contrazione di shoe-shiner, ovvero “lustrascarpe”.
La parola, oggi in disuso, stava ad indicare i bambini, di età compresa approssimativamente tra i 7 e i 12 anni, i famosi “scugnizzi”, che vivevano arrangiandosi per le strade dei quartieri napoletani più poveri, soprattutto pulendo le scarpe o facendo piccoli lavori per gli adulti in cambio di pochi spiccioli. La parola divenne nota nel resto d’Italia soprattutto ad opera del film di Vittorio De Sica del 1946, intitolato appunto Sciuscià.
Una figura paradigmatica di una Napoli genuina e veritiera, che si dibatteva nelle tribolazioni e sofferenze della società post-guerra mondiale, la seconda, tesa fra necessità di riorganizzazione economica e mutua solidarietà sociale.
Durante il periodo dell’occupazione statunitense, dunque, nel biennio 1944/1945, non era raro trovare dei mendicanti, spesso dei bambini, che, in cambio di poche lire come corrispettivo, solevano lustrare le scarpe agli astanti, in genere collocati in luoghi di passaggio turistico e commerciale.
Per la verità, questo tipo di prestazione veniva offerta nell’intera Italia meridionale, e poi traslata anche in America, nel periodo delle grandi migrazioni verso gli Stati Uniti per necessità lavorative, sebbene anche oggi non sia evento raro notarne qualcuno, soprattutto nel tratto iniziale di Via Roma.
L’enorme risonanza di cui ha goduto nella città partenopea, è dovuta alla diffusione dell’omonimo film drammatico di Vittorio De Sica del 1946 – sebbene ambientato a Roma, nell’arteria di Via Veneto – uno dei manifesti della corrente espressiva neo-realista, nonché prima pellicola ad aggiudicarsi l’Oscar per il migliore film straniero, che trattava di tematiche aventi ad oggetto la degradata vita di questi piccoli clochard.
Gli attrezzi per lo svolgimento di questo servizio, che come dicevamo al giorno d’oggi è andato progressivamente scomparendo, sono pochi e basilari, constando di una pedana sagomata di legno, ove il cliente poggia il piede, magari di una sedia, onde favorire la comodità della posizione, spazzola, lucido ed anilina nera o marrone, a seconda del colore della scarpa.
Passando alla concentrazione logistica nel capoluogo partenopeo, qui il regno degli “shoe-shiner” era la Galleria Umberto I, un notabile raccordo di esercizi commerciali, eretto secondo i dettami dello stile liberty verso la fine dell’Ottocento, ed inaugurato nell’anno 1892.
Numerosi, atteso il frequente andirivieni di borghesi e patrizi, i lustrascarpe presenti, che sovente erano informati ad un codice comportamentale comune, di grande colloquialità verso gli astanti e galanteria verso le donne, spesso dotati di una copia del quotidiano del giorno, con il quale intrattenevano i clienti.
Una descrizione memorabile dei lustrascarpe partenopei, con una dettagliata chiosa sulle implicazioni sociali di tale figura, è contenuta nel romanzo di Curzio Malaparte “La Pelle”, ambientato nel medesimo e tumultuoso periodo storico.
Tra quelli a cui eravamo personalmente legati, di recente – circa cinque anni fa – ci ha lasciati Antonio. “Zì Tonino”, l’ultimo dei lustrascarpe dalla periferia di Casoria, per circa dieci lustri compunto e cortese shoeshiner della Galleria, dal lato dell’ingresso di Via Toledo, che rasserenava i passanti con la spontaneità di un sorriso o magari parlando degli ultimi eventi calcistici, di cui era appassionato.